Ogni nuova scoperta è un salto verso il futuro: il percorso di Mateus D’Ávila dall’Amazzonia a Yale
Vi presentiamo Mateus D’Ávila, borsista della Fondazione Dompé e dottorando in neuroscienze all’Università di Yale. Nato in Amazzonia, Mateus ha scelto di completare il suo percorso di studi nella prestigiosa università della Ivy League perché attratto dal suo “track record” di scoperte scientifiche. Il dottorato - che sta svolgendo con grande passione - rappresenta una sfida sotto moltissimi aspetti. Ha a che fare con la risoluzione di problemi, il pensiero creativo, l’impegno in ricerche innovative, l’identificazione di risposte alle grandi domande della neuroscienza, nonché la contaminazione di idee provenienti da campi diversi. Scoprite di più sul percorso universitario, le passioni e i sogni di Mateus in questa intervista.

Raccontaci qualcosa di te e delle tue origini
Sono nato a Belém, una città immersa nell’Amazzonia. Il Brasile è un paese di straordinaria diversità culturale e Belém - con la sua identità unica e vibrante - ne è un perfetto esempio. La foresta pluviale e le tradizioni indigene permeano ogni aspetto della nostra cultura: dalla gastronomia alla musica, dall’architettura allo stile di vita. Abbiamo spezie che avvolgono il palato, una moltitudine affascinante di religioni e rituali, pesci con quattro occhi e delfini rosa: è un luogo che non somiglia a nessun altro al mondo, e chiunque lo visiti ne resta incantato.
Cosa ti ha spinto a scegliere Yale per il tuo dottorato?
Yale ha una straordinaria storia di scoperte scientifiche, che vanno dall’identificazione dei geni legati alla SLA agli studi pionieristici sugli effetti antidepressivi della ketamina. Ciò che mi ha conquistato, però, non è stata solo l’eccellenza accademica, ma soprattutto l’ambiente: qui non si cresce solo come ricercatori, ma anche come persone. La comunità di Yale è incredibilmente stimolante e solidale, è il posto perfetto per chi vuole spingersi oltre i propri confini, sia sul piano intellettuale, sia su quello personale.
Cosa ami di più del tuo percorso di studi?
Quello che rende il mio dottorato così entusiasmante è il fatto che non sia solo un accumulo di nozioni, ma anche una continua sfida creativa. La ricerca è un territorio in cui bisogna imparare a risolvere i problemi e a guardare le cose da prospettive sempre nuove. Ogni giorno è una nuova esplorazione, un’opportunità per avvicinarsi a risposte che ancora non conosciamo. È questa tensione tra il noto e l’ignoto che rende tutto incredibilmente stimolante.
Quale competenza vorresti sviluppare maggiormente?
Vorrei affinare la capacità di intrecciare idee provenienti da ambiti diversi. La scienza moderna non si muove più a compartimenti stagni: le scoperte più rivoluzionarie avvengono quando un’intuizione, nata in un campo, trova applicazione in un altro, e questo accade spesso inaspettatamente. Penso che la vera innovazione nasca proprio da queste connessioni, ed è per questo che desidero allenare il mio pensiero in questa direzione.

Parlaci di un’esperienza all’estero particolarmente significativa per il tuo percorso di studi
Nel 2023 ho avuto l’opportunità di presentare la mia ricerca a Porto, in Portogallo, durante la conferenza della International Society for Neurochemistry. È stata un’esperienza incredibile, che mi ha insegnato quanto sia fondamentale la collaborazione nella scienza. Spesso passiamo mesi a riflettere su un problema in totale solitudine, dimenticandoci come una semplice chiacchierata di venti minuti con un collega può accendere una scintilla che cambia tutto. Quel viaggio mi ha ricordato quanto possiamo crescere grazie al confronto e alla condivisione delle idee.
Quale traguardo personale ti rende maggiormente orgoglioso?
Il dottorato per me è molto di più di un percorso accademico: è un viaggio di trasformazione. Mi sta insegnando a conoscermi meglio, a capire cosa voglio davvero e cosa mi rende felice nel lungo periodo. Ma non solo. Mi sta insegnando anche a gestire i conflitti, a prendere decisioni con maggiore sicurezza e a restare fedele a me stesso. La consapevolezza che ho acquisito durante questo percorso è una delle conquiste più preziose della mia vita.
Qual era il tuo più grande sogno da bandino? E oggi?
Da piccolo ho sognato di fare l’attore, poi il giornalista e poi il filosofo. Quando ho scoperto le neuroscienze, ho capito che quello era il mio posto. Guardando indietro, mi rendo conto che tutti i miei sogni avevano un filo conduttore: il desiderio di capire il comportamento umano e di raccontare storie. Oggi, attraverso la ricerca, sento di poter esplorare e dare voce a quelle storie in un modo che mi appartiene profondamente.
Cosa ti dà la carica ogni mattina?
L’idea di scoprire qualcosa di nuovo, la consapevolezza che la giornata può portarmi a intuizioni inaspettate, a incontri stimolanti, a nuove domande da esplorare. Per me, imparare è la condizione ideale per essere felice. Essere uno studente significa anche accettare di sentirsi vulnerabili, ma è proprio questa tensione tra il non sapere e il voler sapere che mi spinge a dare il meglio di me.

Qual è la tua più grande passione?
La narrazione. Che si tratti di scienza o di vita quotidiana, amo il potere che hanno le storie di creare connessioni profonde tra le persone. Pubblicare un articolo scientifico è una soddisfazione enorme, ma sono i momenti più spontanei – una conversazione che fa ridere, una riflessione che porta a un’idea – a darmi davvero energia.
Cosa rappresenta per te la borsa di studio Rita Levi Montalcini?
È difficile esprimere quanto significhi per me questa borsa di studio. È un riconoscimento che va oltre l’aspetto accademico: è una fonte di incoraggiamento, una spinta a continuare a inseguire i miei obiettivi con determinazione. Sapere che il mio lavoro è stato riconosciuto da alcuni esponenti della comunità scientifica è estremamente motivante. Sul piano pratico, poi, avere una maggiore stabilità economica mi permette di dedicarmi completamente alla ricerca, senza distrazioni.
Gli studenti a volte rinunciano a fare domanda perché temono di non vincere. Hai avuto questo o altri pensieri negativi quando hai fatto domanda per la borsa di studio della Fondazione Dompé? Se sì, come li hai affrontati?
Assolutamente sì. Per un attimo ho pensato di non provarci nemmeno, perché avevo paura di non essere abbastanza bravo. Ma con il tempo ho capito che il dubbio è una parte naturale della crescita intellettuale. Anche solo lavorare alla mia candidatura è stato un esercizio di riflessione su me stesso, e questo aveva già un grande valore. Questa esperienza mi ha insegnato una cosa fondamentale: è sempre meglio tentare, piuttosto che lasciare che la paura del fallimento ci paralizzi.